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Lei intuiva che avevo combinato qualcosa ma non aveva ancora capito cosa.
Io piangendo, ma pensando alla bici che ormai era mia dissi: "io questa volta non ho fatto niente,
sono sudato perchè stavo giocando a pallone con gli amici, ma tu sei cattiva, ce l'hai sempre con me."
Non avendomi visto uscire dalla cantina pensò che fosse la verità e mi riportò in casa,
mi ripulì dispiaciuta, e mi mandò a letto per il sonnellino pomeridiano.
Ma secondo voi io potevo dormire? Avevo da poco finito di piangere, ma ero pronto
per dare inizio alla seconda parte dell'avventura.
La mamma di solito nel pomeriggio, dopo aver finito di mettere in ordine la cucina, si sedeva a ricamare.
Finalmente sicura che la digestione mi appesantiva e che io per qualche ora
rimanevo fuori dai guai dormendo, si godeva un po’ di tranquillità.
Io ne approfittai, riuscii a conquistare facilmente la cantina e cominciai a prendere confidenza con la mia bici.
Decisi che avrei fatto un giro subito, e provai a salirci sopra ma non mi potevo
sedere perchè mancava la sella. In piedi sui pedali, ma poi come avrei frenato.
Era complicato accidenti. Seduto sul gradino della scala scoraggiato mi feci scappare due o tre lacrime.
Mentre mi asciugavo gli occhi il mio sguardo cadde e si fermò per qualche secondo
su un vecchio paio di pantaloncini strappati che in attesa di essere buttati via
erano stati parcheggiati in cantina su una vecchia botte.
Avevo trovato il sellino, ora dovevo assemblarlo alla canna della bici.
Mi avvicinai alla botte, mi accorsi che i pantaloni non erano soli e no!
Qualche filo di ragnatela, qualche granellino di terra, due o tre tarantole avevano
pensato bene di unirsi ai pantaloni e farsi compagnia accidenti.
Quello che combinai per impossessarmi dei pantaloni è tutta un'altra storia, ma ora voglio finire questa.
Gli arrotolai alla canna e gli legai con un po’ di fil di ferro che trovai lì in cantina.
Presi la bicicletta dal manubrio e la tirai per le scale, mi affacciai sulla porta,
per strada non c'era nessuno tutti erano a letto, dormivano.
Nel quartiere dove abitavo la maggior parte delle persone era contadina,
la mattina andava in campagna presto perchè le giornate soleggiate e calde obbligavano
a rientrare a una certa ora e poi si ritornava a lavorare nel pomeriggio col fresco.
Era il tempo che si piantava il tabacco, la mattina si preparavano le piantine
da piantare la sera, perciò a pomeriggio la gente dormiva un po’.
In quell’istante per strada non c'era nessuno, non passavano neanche macchine,
dormivano anche i cani e i gatti, non ronzavano nemmeno le mosche perchè la gente prima di andare a dormire buttava il flitti.
Le finestre e le porte aperte per lasciare entrare un po’ di venticello. Tutto intorno il deserto.
Sembrava uno di quei paesi fantasma che si vedono nei telefim western.
Tutta la strada era mia, non c'erano neanche i mie soliti amici, dormivano anche loro.
La mia felicità fu completa quando mi resi conto che la strada era in pendenza,
non c'era nemmeno il bisogno di pedalare sarebbe bastato salirci sopra e farla andare dritta, e così feci.
All'improvviso quel profondo silenzio fu rotto da un fastidiosissimo stridio del
metallo dei cerchioni sull'asfalto, che continuò per qualche secondo finchè non persi l’equilibrio e caddi.
In un attimo mi ritrovai raggiunto da una serie di zoccoli di legno che le persone mi
tirarono uscendo sui balconi e sulle porte di casa per vedere cosa stava succedendo.
Allarmate prima da quel fracasso, imbestialite dopo per essere state svegliate nel bel mezzo del riposo pomeridiano.
Tutte a inveire contro mia madre, che nel frattempo mi stava raggiungendo, perchè non riusciva proprio a tenermi a freno.
Mia madre si vide costretta a presentarmi il saldo delle mazzate, anzi questa volta
mi prese per un orecchio e me lo tirò facendomi fare così tutta la salita che prima avevo sceso in bicicletta.
Ascoltandosi tutti gli insulti del vicinato con il sottofondo del mio pianto.
Con una mano tirava il mio orecchio e con l’altra portava la bici sollevata da terra
perché anche così faceva un fracasso di ferraglia infernale.
Bilanciandosi nel tirare un po’ la bici e un po’ il mio orecchio.
A che felicità il mio primo giro in bici.
Ce ne furono altri comunque nei giorni a venire.
Ogni giro un’avventura perché i vicini volevano togliermela a tutti i costi e cercarono di rubarla,
di spaventarmi per non farmela prendere.
Era troppo il fracasso che faceva e fastidiosissimo ascoltarlo.
Un giorno, tornando da scuola, in cantina non trovai più la mia bellissima bicicletta rossa.
Le indagini si conclusero con il verdetto ufficiale di furto.
Penso che la sua scomparsa sia da attribuirsi alla disperazione di mia madre, anche se lei non l’ha mai confessato.
Anche da grande, quando mi raccontava e io le chiedevo che fine avesse fatto la mia bicicletta rossa, lei mi rispondeva con un:
"E nna! Fiju meu… ci lu sape! Sa rrubbara te sutta a cantina."
- Bho! Figlio mio… chi lo sa! Se la rubarono da sotto la cantina.
Ciao Mamma!
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